ISOLA LIRI - JACK IL VENDITORE DI HOT DOG

  • Tommaso Villa

Ricordate Jack il venditore di hot dog che sostava con il suo carrettino in Via Pirandello a Isola Liri? L'inverno lo sistemava dentro un tendone per preservarlo dall'umidità e dalla pioggia, in estate sotto un ombrellone da spiaggia che faceva roteare con sapienti e rapidi colpi di mano per attirare i ragazzi, affascinati da quell'uomo che pareva un illusionista in un improvvisato teatro di strada.

Jack era un semplice e simpatico personaggio, che aveva il desiderio di vivere la sua vita in maniera libera, spesso oltre le regole. Da bambino era emigrato con la famiglia in Canada. Il padre, cessato il lavoro di mezzadro in un terreno adiacente al fiume, aveva abbandonato il casale che nel tempo era stato tramandato da padre in figlio. Quelli che lo conoscevano bene sostenevano che avesse lasciato moglie e figli e prestato servizio nella “Royal Canadian Mounted Police”.

Poi come spesso accade, la nostalgia e il richiamo delle radici è così forte da ricondurre nel luogo dove si è nati e vissuti, così era tornato ad Isola del Liri con il suo vecchio padre. Jack non era né un eroe né un santo, lui stesso non voleva esserlo, amava il suo lavoro , i suoi hot dog, e la compagnia dei ragazzi che sostavano davanti al posto di lavoro e che gli davano da vivere. Ma non aveva capito che una piccola città di provincia non è il Canada, dove tutto è più semplice, da noi si devono fare i conti con procedure che spesso non aiutano ma ostacolano e con una burocrazia che penalizza il cittadino.

Non aveva messo in conto che tornato in Italia si sarebbe confrontato con una parte della comunità spesso bigotta, invidiosa e prevenuta nei confronti di chi è “troppo originale”, fuori dal normale, poco conforme al comune modo di vivere e di pensare: ” Vende la droga … troppo baccano, non si riesce a dormire la notte … Cosa fanno i carabinieri … bisogna mandarlo via, togliere quella sporcizia indecente vicino alle nostre case... “. E così il povero Jack, il venditore di hot dog, l'artista di strada, imbrigliato tra i permessi comunali, le autorizzazioni della ASL e della Camera di Commercio, dovette togliere tutto, mettere a posto “le carte” e cercare una nuova sistemazione, ma non poteva essere la stessa cosa, quel posto era ormai un luogo dell'anima dove lui stesso era re e giullare.

Non saprei se fu quella grande sofferenza a provocare la tragedia. I suoi comportamenti divennero strani, diceva di essere gravemente malato e di sicuro pensava di esserlo, lo confidava agli amici più intimi, come se avesse poco da vivere e sentisse il vento freddo della morte soffiargli dietro il collo. Mi riferirono che se gli chiedevano, quando avrebbe ripreso la sua attività, metteva le mani in tasca e donava danaro: “a me non servono più, vai a cena al ristorante e bevi alla mia salute”.

Se ne andò per sempre: fu una tragica fatalità, voleva raggiungere la casa degli avi, ormai in disuso, dove era nato e cresciuto, prima di trasferirsi in Canada, evitando un ponte di legno sconnesso e pericoloso. Cercava in quella casa sul fiume i ricordi più belli della sua infanzia, che lo avrebbero aiutato in un momento di forte preoccupazione, per un futuro che vedeva incerto, compromesso dall’idea di un male che ronzava nella sua testa come un moscone impazzito.

Io che l’ho conosciuto, che l’ho visto ridere ed essere nervoso, felice e depresso, quando veniva a trovarmi al Comune, ho sentito il dovere di ricordarlo per una forma di rispetto verso un uomo buono, che non faceva del male, voleva solo vivere in uno stato di autonomia da lui sentito come diritto, senza lacci o impedimenti.

LUCIANO DURO