IL PARERE - BENIGNO ZACCAGNINI: PASSIONE, DIGNITA' E COERENZA

  • Tommaso Villa

Aldo Preda, ravennate, è stato un bravissimo parlamentare dell’Ulivo e dei Democratici di Sinistra; attivo da sempre nel movimento dei Cristiano Sociali, mesi fa mi aveva chiesto un ricordo di Benigni Zaccagnini. Ho provato a scriverlo e mi fa piacere condividerlo qui sopra con voi. Buona giornata e un abbraccio

*1989. Undici anni dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro era stato Sergio Zavoli per la sua “Notte della Repubblica” a convincere Benigno Zaccagnini a uscire dal riserbo e dal dolore di quello strappo.

Strappo senza precedenti nella parabola repubblicana, e strappo personale, intimo, che ne avrebbe condizionato la sfera dei pensieri più profondi e solitari. Il dialogo tra quei due intellettuali che si conoscevano da sempre, romagnoli e onesti – dell’onestà che Saba addita quale dote del “poeta”, non ingannare i lettori dei tuoi versi – è un percorso a ritroso della pagina che svoltò la storia d’Italia.

Poco o nulla dopo quelle date, 16 marzo e 9 maggio 1978, sarebbe tornato com’era, compresa l’adolescenza interrotta di parecchi tra noi. A un certo punto Zavoli si rivolge al politico – forse, all’amico – e gli parla così, “Io la vidi personalmente piangere e tener duro”. Subito dopo aggiunge il ricordo di una poesia romagnola, “Vado per la mia strada, incontro alla mia guerra, se casco, casco in terra e accidenti a chi mi tira su”. Con garbo e un tono morbido della voce, il giornalista bussa all’animo del politico e lo interroga su quanto lacerante fosse stata la scelta tra difendere lo Stato e la salvezza possibile dell’uomo.

Zaccagnini risponde. Riflette e risponde, con quelle pause oggi dalle telecamere negate, mentre risale lento il flusso di immagini e domande, quest’ultime tutte o quasi senza replica. Sino alla confessione – così la battezza lui stesso – di aver pensato all’indomani di Via Caetani alle dimissioni da segretario della Democrazia Cristiana. E di averne parlato con una persona soltanto, il suo più caro amico, per ascoltarne l’opinione. Al che Zavoli gli chiede se ne avesse discusso anche con la moglie e Zaccagnini spiega che no, non lo aveva fatto perché non poteva caricare un peso simile su chi avrebbe risposto mossa unicamente dall’affetto.

Nel marzo del 1975, il XIII congresso della Democrazia Cristiana, il più combattuto di sempre, si era concluso a sorpresa con l’elezione a segretario di quel ravennate, faentino per la precisione, già scortato da una corposa trafila di incarichi. Sottosegretario al lavoro nel governo Fanfani tra il ’58 e il ’59. Ministro nello stesso dicastero l’anno successivo quando licenzia la norma che consegna valore giuridico ai contratti garantendo maggiori tutele ai lavoratori, e poi alla testa dei Lavori pubblici, ancora con Fanfani nel primo biennio degli anni Sessanta. Capogruppo della DC alla Camera dei deputati nella legislatura seguente, presidente del partito dal 1969 fino a quel 1975 che lo consegna all’incarico più rilevante sul terreno politico.

1975, l’anno della grande avanzata comunista nelle elezioni amministrative, un bipartitismo che per la prima volta evocava l’ipotesi di un sorpasso, ma alle politiche del ’76 sarebbe stata la segreteria di “Zac” a condurre la DC sulla vetta del 38,71 per cento, quattro punti sopra l’altro grande balzo in avanti del Pci di Berlinguer.

Alla platea del congresso che lo aveva eletto segretario, Zaccagnini si era rivolto con parole schiette. Aveva voluto chiarire un auspicio personale, la speranza di diventare il segretario nazionale dal mandato più breve, convinto com’era fosse tra i suoi doveri sfruttare la stagione del rinnovamento per concepire nuovi equilibri all’interno e una diversa leadership nel legame con quella società in rapida evoluzione. Questo colpisce. Una sorta di ritrosia dell’uomo a fare propri i gradi della direzione, l’idea in quella notte contrastata di votazioni che il suo dovesse essere un mandato breve, a termine, e poi il pensiero delle dimissioni dinanzi al corpo dell’amico ucciso.

  • Come chiamarlo? Un senso dei propri limiti? Oppure, come penso sia più giusto, il pensiero vivo di una politica traversata sempre con la passione civile e lo spirito di servizio senza i quali anche i traguardi più prossimi tendono a farsi lontani? *

Benigno Zaccagnini si era laureato in medicina. Chirurgo pediatrico, e anche questo deve avere avuto un peso. Al pari di quella fede interpretata nella forma più aperta. Laica mi piacerebbe dire. Dopo l’8 settembre – il dissolvimento dello Stato e dei vertici delle forze armate, lo sbandamento totale del Paese – aveva scelto la strada della lotta per la democrazia e la libertà.

Partigiano nelle Brigate Garibaldi, come altre e altri aveva toccato con mano la fraternità tra diversi, lui cattolico assieme al comunista, Arrigo Boldrini, uniti alla tradizione repubblicana delle loro terre. Sul terreno politico e morale per Zaccagnini quel moto dal basso aveva rappresentato una pagina persino più nobile del primo Risorgimento. Certo, non è facile spiegare ai ragazzi di ora quanto una tragedia affrontata assieme – culture e tradizioni distinte – sarebbe risultata decisiva nel fondare la Repubblica e nello scortare il compromesso costituzionale.

Dopo la rottura del ’47 e l’uscita dal governo di socialisti e comunisti, l’azione della Costituente – Zaccagnini ne faceva parte, eletto nel collegio di Bologna con 11.121 preferenze – aveva completato l’opera consegnando agli italiani la loro Carta in vigore dal 1° gennaio del 1948.

“La politica ha un solo compito: far sì che sia ragionevole continuare ad avere speranza. Questo vale soprattutto per i giovani”: ancora a Zavoli, Zaccagnini si rivolge a questo modo per sintetizzare il suo modo di intendere la militanza nel partito dei cristiani. E alla domanda se dopo quel 1978 qualcosa, e cosa, fosse cambiato nel modo di pensare e agire dei politici, la risposta era stata un sì. Sofferto, consapevole delle conseguenze, e la prima a venire indicata riassumeva tanta parte di quanto sarebbe accaduto da lì in avanti. Dice Zaccagnini, “dopo di allora troppe semplificazioni si stanno introducendo nella politica”. Così torna alla mente una sintesi, folgorante tuttora, coniata a suo tempo da Moro: “chi semplifica toglie consapevolmente il superfluo; chi banalizza toglie inconsapevolmente l’essenziale”. Verità profonda e condanna severa di un tempo, il nostro, dove l’arte della semplificazione si è vista soppiantata dalla pratica della mediocrità.

Zaccagnini come Moro – ma potremmo aggiungere, al pari di Nenni, Berlinguer, La Malfa o Anselmi e Iotti – erano espressione di una consapevolezza mai tradita o svenduta sull’altare del consenso. La coscienza di avere ereditato un’Italia devastata dalla dittatura e restituita a prospettive di pace e sviluppo non per concessione altrui, ma per la forza di culture radicate nelle tradizioni migliori dell’Italia liberale e poi repubblicana. “Moro era l’antitesi di ogni forma della politica spettacolo”, sempre Zaccagnini lo rammenta evocando il compagno e la guida. E pure qui affiora un senso di perdita verso un metodo prima ancora che una visione o una strategia.

Benigno Zaccagnini se n’è andato all’improvviso il 5 novembre del 1989. Vuol dire che per quattro giorni soltanto non ha visto cadere il Muro più celebre e odiato della seconda metà del Novecento, nel cuore di una Berlino divisa a metà. La sua vita è stata ricompresa per intero in quel secolo “breve” segnato da due guerre mondiali, dalla fondazione del welfare, la più incredibile architettura sociale mai concepita dalla politica, dalla ricostruzione dell’Italia dopo la barbarie delle trincee sul Carso e dei campi di sterminio nazisti. Al fondo si è congedato un istante prima che la Storia piegasse verso un altro destino, con l’Occidente tronfio del suo presunto successo e l’avvio di altri devastanti conflitti coi quali siamo oggi chiamati a misurarci.

Cosa ci rimane di quella testimonianza? Forse il racconto così umanamente anomalo e assieme ricco di una leadership restia a farsi “potere”. E però sarebbe un errore liquidarla come una forma di modestia, in quanto tale fuori dal tempo. Per quanto poco possa valere, a me piace pensarla come la testimonianza preziosa di una irriducibile dignità. E di questo, nessuno può negarlo, avremmo oggi un disperato bisogno. “Vado per la mia strada, incontro alla mia guerra, se casco, casco in terra e accidenti a chi mi tira su”. Passione, dignità, coerenza: cos’altro era la politica? Ma soprattutto, cos’altro è?

GIANNI CUPERLO

Ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere Benigno Zaccagnini nell'ex galoppatoio di Modena nel 1979. Era la terza festa nazionale dell'Amicizia. Nel 1980 lo cercai e lo incontrai di nuovo a Pescara, nella grande pineta. Era la quarta festa nazionale dell'Amicizia. Da allora, grazie all'amico "camerata" Diego Mancini, sono stato sempre e per tutti "Zac". Nella mia lunga attività professionale ho firmato molto spesso così. Senza avere alcuna presunzione, per dirla con la parole di Gianni Cuperlo, mi sono sempre ispirato alla passione, alla dignità e alla coerenza di Benigno Zaccagnini. Spesso non ci sono riuscito. Sulla mia scrivania, da una parte la sua foto, dall'altra Gesù Cristo in croce.

ZAC