MUSICA - I THE FEVERS E IL FUMO DI LONDRA
- Tommaso Villa
La nostra sala prove era un casolare di campagna, non lontano dal centro e a poca distanza dal fiume. In quel posto tranquillo potevi tirare fino a tardi senza arrecare disturbo. Nel tempo vi è stato edificato un palazzo con più appartamenti ed un supermercato a piano terra.
Quella sera ero soddisfatto, avevamo suonato bene ed arricchito la “scaletta” con qualche nuovo brano. Eravamo pronti per il “Tè Danzante” della domenica. Giorgio e Cesare non mostravano la solita allegria, da qualche giorno li vedevo stranamente riflessivi. Tra i componenti della band erano i più uniti, vivevano in simbiosi, l’uno dipendente dall’altro, ogni cosa la facevano insieme. Mi attardai, sebbene fosse ora di cena, discutendo di musica e dei progetti futuri, ma il loro atteggiamento era quello di chi ha ben altro per la testa.
Cesare interruppe la discussione e con voce e sguardo deciso disse: «Noi andiamo a Londra tu vuoi venire?» Ci scherzai su e replicai sarcastico: «Certo con il nostro curriculum scolastico, questa estate sarà difficile che i genitori ci diano il permesso e i soldi per andare in vacanza a Londra». Pensavo che fosse un progetto di là da venire, ma Cesare, deciso, senza possibilità di replica, continuò: «Forse non sono stato chiaro, noi stiamo andando adesso!».
«Vuoi scherzare – risposi – non avete una lira in tasca, non conoscete una parola in inglese, è buio, dove volete andare?». Giorgio, che era stato sempre in silenzio annuendo con movimenti della testa, ruppe gli argini come un fiume in piena: «Sono stufo, qui non abbiamo nessun futuro, vogliamo andare a suonare in Inghilterra, formare una band ed avere successo».
Londra, con i suoi simboli che giungevano ad una piccola città di provincia come un eco lontana ma di forte attrattiva, era un pensiero fisso nella testa e nel cuore. Offriva alla nostra generazione insoddisfatta, la risposta al desiderio di cambiamento, il luogo privilegiato della nuova espressività giovanile. La Swinging London era un anelito di libertà e un desiderio di ribellione nei confronti del modello imposto dagli adulti sintetizzabile nelle “tre M”. E cioè: “mestiere sicuro, macchina, moglie.” John Lennon, in alternativa, con quella giacca militare da “ Marine in Vietnam" e gli occhiali “da nonno”, che diventeranno uno stereotipo presso le università, cantava con i Beatles “.. Non c’è niente che tu puoi conoscere che non è conosciuto. Niente che puoi vedere che non viene mostrato. Non c’è posto dove puoi essere che non è dove sei destinato ad essere. È facile …” ( All You Need Is Love ).
Un’ideale femminile lontano dalle ragazze del Quadribar di Sora, dove si suonava dalle 15,30 alle 19,30 del pomeriggio, poi tutte a casa e ulteriori permessi non erano concessi. A Londra era diverso, la stilista Mary Quant aveva liberato il corpo delle donne con la minigonna e le teenagers erano libere dalla morsa delle famiglie. A distanza di tanto tempo, ciò che allora sembrava una di quelle innocenti ragazzate che si fanno a 16 anni, quando vuoi uscire dal nido per spiccare il volo, era in realtà un primo sussulto, un impulso a spezzare il legame che impediva di allontanarsi quando il posto dove si viveva sembrava troppo piccolo. Ma la catena era robusta e la forza assai debole.
Cercai in ogni modo di far capire che quel fantasioso progetto era irrealizzabile, non era proprio il caso di montarsi la testa. A Londra potevamo andare solo in vacanza. The Fevers era un buon gruppo, ben messo, con un repertorio per quei tempi all’avanguardia. Suonavamo ovunque con grande successo e spesso eravamo superiori a tante band italiane che pur avevano inciso dischi. Tuttavia la scena musicale britannica era così piena di eccelsi musicisti che per emergere dovevi avere un grande talento. Oltre ai Beatles, ai Rolling Stones, c’erano gli Yardbirds, i Them di Van Morrison, Jimi Hendrix, i Cream di Eric Clapton, il British Blues di John Mayall, gli Hollies di Nash, gli Animals. Una miriade di grandi band ed un fermento artistico in continua evoluzione creativa.
Era così selettiva la “Swinging London” che tante band di buona levatura, cercavano successo altrove, spesso in Italia. E’ il caso dei Rokes, dei Primitives di Mal, dei Motowns ed altri ancora. Provai a dissuaderli ma non ci fu nulla da fare. Mi salutarono con fare altezzoso e si incamminarono verso Frosinone, destinazione Londra.
A quei tempi, già il tornare a casa oltre le nove di sera, senza aver studiato, erano problemi seri, figuriamoci la preoccupazione per due figli minorenni che alle undici non davano notizie. Quell’insolito ritardo mise padri e madri in agitazione. Il padre di Giorgio si mise subito in contatto con casa e chiese se io fossi rientrato, infatti ero tranquillamente a letto, la stessa cosa fece la madre di Cesare.
Quando si avvicinò la mezzanotte, li vidi tutti precipitarsi nella mia stanza, loro sapevano che l’unica risposta potevo darla io, eravamo troppo legati per non sapere dove fossero. Mi fecero alzare dal letto, sedere su una poltrona per un interrogatorio con tortura fisica. Mio padre mi prese per i lunghi capelli e tirandoli, mentre strillavo dal dolore ripeteva: «Parla, dove sono, disgraziato, da domani non suonerete più, riporteremo tutto a Vicini! ».
Non cedetti, ma quando si tolse la cinghia dai pantaloni e paventò la minaccia di riconsegnare tutto a Vicini, la casa musicale che ci forniva gli strumenti e gli amplificatori, caddero le mie barriere difensive e fui costretto a dire la verità. Ricordo l'ansia della madre di Cesare, sembrava che gli scoppiasse il cuore e l'ironia del padre di Giorgio: “Vanno in Inghilterra ... non arriveranno al Giglio...” Intanto i due erano giunti alle curve di “Scannacapra”, la superstrada era ancora un utopistico sogno, il buio non incoraggiava ed i latrati dei cani inquietavano, la stanchezza era tanta, la fame pure. Decisero di tornare a casa. Cosa avvenne dopo non l’ho mai saputo, ricordo che per una settimana non mi rivolsero la parola, come se li avessi traditi.
LUCIANO DURO